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mercoledì 5 settembre 2007


La natura inumana di UMBERTO GALIMBERTI
Abbiamo chiamato "madre" la natura
nel tentativo di propiziarcela
e abbiamo dimenticato che la natura è semplicemente indifferente alle vicende umane.
Come dice il Tao Te Ching al capitolo quinto:
"Il cielo e la terra sono inumani: trattano i diecimila esseri come cani di paglia".
Ma che ce ne facciamo della sapienza antica noi,
uomini della tecnica,
che pensiamo, con i nostri dispositivi, di dominare il mondo?
Questo delirio di onnipotenza ci rende immemori e ci fa dimenticare che le sorti dell'uomo
non sono nelle sue mani e neppure sono protette dallo sguardo benevolo di un Dio,
ma custodite nel segreto inaccessibile di una natura
che Goethe,
in un suo saggio sulla natura del 1783
descrive come una folle danzatrice che nella sua danza sfrenata perde gli uomini che gli sono aggrappati
senza fedeltà e senza memoria.
Scrive Goethe:
"Natura! Da essa siamo circondati e avvinti, né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo.
Ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi
e le cadiamo dalle braccia.
Viviamo nel suo seno e le siamo estranei.
Costantemente operiamo su di essa e tuttavia non abbiamo alcun potere sulla natura.
La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita.
Non conosce né passato né futuro.
Il presente è la sua eternità".
Per reperire un senso e salvarsi dall'indifferenza della natura, l'uomo ha inventato la storia.
Prima come scenario di esseri superiori che ha chiamato Dio e dèi,
capaci di propiziare la buona stagione, i frutti del raccolto, le condizioni del vivere.
Ma anche Dio e gli dèi si sono rivelati impotenti, i sacrifici degli uomini li lasciavano indifferenti.
Fu allora che l'uomo, congedatosi dagli dèi e da Dio, prese a costruire argini e spesse mura e,
imitando i processi della natura, tentò di arginare la sua potenza con la tecnica:
tecnica medica per evitare, come dice Ippocrate, la morte evitabile,
la tecnica ingegneristica per costruire difese che impedissero catastrofi,
la tecnica previsionale che allontanasse il più possibile l'inquietudine dell'imprevedibile.
Rassicurato dalla sua mente e dai prodotti della sua mente interrogò Prometeo,
che aveva donato la tecnica agli uomini, ponendogli questa domanda:
"È più forte la tecnica o la necessità che governa le leggi di natura?".
Prometeo, amico degli uomini e inventore delle tecniche, dà la sua risposta lapidaria:
"La tecnica è di gran lunga più debole della necessità che governa le leggi della natura".
Così riferisce Eschilo nel Prometeo incatenato, e Sofocle, di rincalzo,
nell'Antigone dice che l'aratro ferisce la terra, ma questa si ricompone dopo il suo passaggio.
Allo stesso modo la nave fende la calma trasognata del mare, ma le acque si ricompongono
perché la natura è sovrana.
Noi abbiamo dimenticato la sovranità della natura che, al dire di Eraclito,
"nessun uomo e nessun Dio fece" e, inebriati dai nostri dispositivi tecnici,
abbiamo dimenticato la sua potenza.
Fedeli esecutori del comando biblico che invitava Adamo al dominio della terra,
abbiamo trasformato il suo uso in usura.
E per il breve periodo delle nostre vite e dei nostri miopi calcoli economici forziamo la natura
a essere risposta alle nostre esigenze oltre la giusta misura.
La terra per noi è diventata materia prima e niente di più,
il suolo coltre da perforare per estrarre energia dal sottosuolo,
la foresta legname da utilizzare, la montagna cava di pietra,
il fiume energia da imbrigliare, il mare riserva da esplorare per futuri sfruttamenti,
l'aria spazio ove scaricare i veleni rarefatti delle nostre opere.
Non c'è nessun nesso tra l'incedere impetuoso dei nostri dispositivi tecnici
e lo sconvolgimento delle acque e delle terre in quell'area del mondo che è stata l'India e l'Indonesia,
ma un monito sì.
Non dimentichiamo la potenza della natura e non abituiamoci a pensare che essa
altro non è che materia prima, o deposito di rifiuti.
Il trattato di Kyoto attende ancora molti paesi, tra cui l'Italia, al rispetto della natura.
Migliaia di morti, soprattutto tra i dannati della terra, i più indifesi, semplicemente perché più poveri,
perché hanno per casa quattro assi inchiodate e per vivere un dollaro al giorno.
Sono sempre i più deboli che la natura elimina seguendo il suo principio della selezione.
Ma se oggi la debolezza non è decisa dalla biologia, ma dalla ricchezza e dalla disponibilità economica,
che complicità abbiamo con la ferocia della natura?
Queste sono le due domande che il maremoto nel Sudest asiatico ci pone:
1. Che rispetto abbiamo della natura noi,
uomini della tecnica che la visualizziamo solo come materia prima?;
2. Che rispetto abbiamo degli altri uomini, e che soccorso diamo a loro noi,
ricchi della terra, che ammiriamo la loro natura nel passatempo delle nostre vacanze?
Se sapremo rispondere a queste due domande con serietà, non fermeremo né i terremoti né i maremoti,
ma eviteremo almeno che, per gran parte dell'umanità, ogni sussulto della terra sia strage.

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